LA FONDAZIONE AGNELLI BARA SUI DATI RELATIVI ALLA SCUOLA !!!

La Fondazione Agnelli, istituto  di ricerca nelle scienze sociali, nata nel 1966 a Torino, dove ha la sede, per volontà dell’Avvocato Agnelli,  svolge, per come è indicato nello Statuto, il compito di  approfondire e diffondere la conoscenza delle condizioni da cui dipende il progresso dell’Italia in campo economico, scientifico, sociale e culturale” e di operare a sostegno della ricerca scientifica.

Ebbene, con un comunicato del 21 settembre tale Fondazione, per l’ennesima volta, cerca, però maldestramente, di rappresentare, con una superficiale ricerca e lettura di dati, la scuola in Italia, fornendo interpretazione e stravolgendo però la realtà dei fatti. 
Nell’allegare, pertanto, sia il report della ricerca della Fondazione Agnelli, che il successivo comunicato stampa di presentazione, alleghiamo anche il prezioso contributo di Mario Pomini che, nella rivista online Roars, il 10 ottobre, ha così ricondotto i dati presentati dalla Fondazione, ribaltando le conclusioni che gli estensori della ricerca hanno inteso rappresentare. 

Report Fondazione AGNELLI;Le-risorse-per-la-scuola_luoghi-comuni-e-dati-reali

Comunicato Stampa della Fondazione-Agnelli-Risorse-per-la-scuola-CS-210922

La lettura vera dei dati secondo Mario Pomini, che la FLP SCUOLA FOGGIA condivide assolutamente, a cui va il ringraziamento del mondo scolastico. 

” La Fondazione Agnelli si è distinta in questi anni per suo spirito fustigatore nei confronti degli insegnanti italiani, forse anche grazie alle notevoli risorse di cui dispone. È tornata sui suoi temi preferiti ancora di recente, tendando di mostrare, piuttosto maldestramente, che l’Italia spende troppo e male per la scuola. Nel tentativo di demistificare i luoghi comuni con i dati reali, come dice il titolo di una recentissima comunicazione, in realtà ha aggiunto ulteriori inesattezze, anche eticamente poco accettabili.

La breve nota della Fondazione è articolata per domande provocatorie con risposte già intuibili. Nella prima ci si chiede se sia vero che la spesa per l’istruzione in Italia sia diminuita. Dalla tabella proposta si ricava che nel 2009 era pari al 3.8% del PIL e nel 2019 era scesa al 3,2 %. Gli autori concludono che in questi dieci anni la spesa è rimasta stabile. Conclusione assai problematica e non condivisibile.
A parte che una spesa che è sempre stata al di sotto della media europea, ed è stabile, non sembra una grande conquista. Ci mancava che addirittura si riducesse. Ma un occhio attento alle cifre coglie alcune contraddizioni. Intanto una diminuzione che sembra piccola in percentuale non lo è nella realtà. Si tratta sempre di una riduzione di quasi il 15%. Siccome la spesa per l’istruzione ammonta a circa 70 miliardi, si è verificato di un taglio di ben 10 miliardi.
Inoltre, se poi si considera che nel frattempo il PIL è cresciuto, anche se di poco, la diminuzione della spesa per l’istruzione è ancora più marcata. Cinicamente poi si osserva con apprezzamento che per il 2020 la spesa è risalita al 3,5%. Ma questo effetto è dovuto non all’aumento del numeratore, la spesa scolastica, ma ad una diminuzione de denominatore, il crollo del PIL a causa della pandemia.
In definitiva, come riporta correttamente un’altra slide del rapporto, la spesa pubblica sul PIL dell’Itala per il 2020 è stata del 4,3% del Pil, ben inferiore alla media dei Paesi dell’euro, 4,9 %. Siamo in fondo alla classifica, non da ora. Tentare di ribaltare questa verità è alquanto velleitario.

Ma quello che più colpisce, anche sul piano morale, è la terza domanda: è vero che gli insegnanti italiani sono diminuiti?
Qui naturalmente la tesi suggerita è che il calo demografico avrebbe dovuto far ridurre gli insegnanti che invece non solo sono tanti, più di 900.000 mila, ma sono anche aumentati in un decennio di un 10%. Un caso esemplare di mal funzionamento di un settore statale del tutto fuori controllo, come il rapporto sembra suggerire?
Curiosamente è lo stesso report che offre la soluzione.
La crescita dei docenti è stata trainata dalle assunzioni degli insegnanti di sostegno, oramai la classe disciplinare più numerosa. L’Istat ci dice che nell’anno scolastico 2020/2021 gli insegnanti di sostegno sono stati 191.000. Possiamo dire che in Italia un docente su cinque è impegnato in questa attività di inclusione scolastica. D’altra parte i soggetti con disabilità che frequentano la scuola sono più di 300.000. E di conseguenza ogni insegnante di sostegno segue, 1,4 studenti. E il trend non sembra fermarsi. Solo nell’anno 2020-2021 gli studenti con disabilità sono aumentati di 4.000 unità. Poiché la legge 244/2007 raccomanda un valore pari a due, un insegnante per due allievi, è chiaro che quest’area di insegnamento è destinata ad aumentare, date le crescenti difficoltà di apprendimento dei discenti.
In definitiva i docenti sono aumentati perché è cambiata la missione della scuola, in linea con dei valori condivisi evidentemente dalla società e dal Parlamento. Accusare in maniera generica la classe insegnante di essere colpevolmente ipertrofica è sbagliato nei fatti e moralmente molto discutibile.
Non sono gli insegnanti che sono aumentati, è il disagio scolastico che è cresciuto e con esso la necessità di contrastarlo. Sul fatto che questa spesa sia eccessiva, e quasi uno spreco, ci sarebbe molto da discutere perché il danno del non intervento precoce, sia per l’individuo che per la società, è di sicuro molto maggiore.

È chiaro che la scuola italiana ha scelto di affrontare in maniera radicale e coraggiosa il problema dell’inclusione sociale, investendo risorse e professionalità. Altre Paesi si sono mossi in maniera diversa e l’insegnante di sostegno non è nemmeno un docente, ma una persona con una bassa qualifica sanitaria.
E qui si apre un altro fronte statistico. Poiché in Italia gli insegnanti di sostegno a tutti gli effetti sono considerati dei docenti, pur servendo uno o due studenti, ecco che il loro numero risulta gonfiato nelle statistiche internazionali che spesso vengono citate. Al netto di questa componente, il numero dei docenti italiani, così pure come la spesa per studente o il rapporto docenti/classi, risulterebbero di molto ridimensionati.
Si può non essere d’accordo sul fatto che la scuola italiana si assuma anche questa funzione di sostenere i ragazzi e le ragazze, con le loro famiglie, che hanno bisogno di un supporto individualizzato secondo la logica tradizionale che ciascuno provveda con i suoi mezzi (liberismo anarcoide). Non è corretto invece utilizzare ad hoc i dati per dare una rappresentazione distorta dei docenti italiani, che nelle fantasie di Confindustria sarebbero troppi e poco disposti a lavorare.

L’ultima domanda del report toccava la questione del salario dei docenti.
Qui gli studiosi non potevano che constatare il divario tra la retribuzione dei docenti italiani e quella dei loro colleghi europei, anche se corrette per le ore lavorative.
Come correttamente affermato, anche qui le statistiche internazionali sono distorte perché gli insegnanti italiani indicano solo le ore di insegnamento frontali. Le scuole non hanno strutture apposite e quindi, se vogliamo, a contrario, lo Stato scarica sui docenti gli oneri che dovrebbe sostenere, una sorta di smart-working atipico.
Eppure, per avere una misura più corretta, si poteva benissimo rapportare la remunerazione del docente al PIL pro capite. Si sarebbe allora più correttamente scoperto che in Europa gli insegnanti meglio pagati sono gli insegnanti spagnoli e tedeschi che guadagnano a fine carriere un reddito superiore del 50% del reddito pro capite (dati del 2017) del loro Paese. In definitiva i dati sono una coperta che, entro certi limiti, ciascuno può tirare dove vuole.

Bisogna però almeno essere onesti e dire anticipatamente dove si vuole andare a parare. La pretesa oggettività esiste solo nella mitologia di alcuni centri di ricerca ben finanziati.”