CONCORSI PNRR : BREVE RIFLESSIONE SULLA SOCIETÀ DEI CONCORSI…E DINTORNI. MERITOCRAZIA DELL’ARRIVISMO

RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO “LE RIFLESSSIONI…..” SULLA SITUAZIONE ATTUALE DELLA SCUOLA ALLA LUCE ANCHE DELLE PROCEDURE CONCORSUALI PNRR E SUL CONCETTO DI MERITOCRAZIA RINGRAZIAMO IL PROF. FLAVIO BELVEDERE, NOSTRO ISCRITTO E SIMPATIZZANTE, CHE DOPO AVER PUBBLICATO IL SUO ARTICOLO SUL”QUOTIDIANO DI FOGGIA” , ABBIA PENSATO ALLA FLP SCUOLA FOGGIA, DA SEMPRE ACCANTO AL PERSONALE SCOLASTICO, PER PUBBLICARE LA SUA SPLENDIDA E CONDIVISIBILE ANALISI. 

       LA SEGRETERIA PROVINCIALE DELLA FLP SCUOLA FOGGIA RINGRAZIA DI VERO CUORE

                                                                                          IL PROF. FLAVIO BELVEDERE !!!

BREVE RIFLESSIONE SULLA SOCIETÀ DEI CONCORSI…E DINTORNI

MERITOCRAZIA DELL’ARRIVISMO

                                                                                                        DI FLAVIO BELVEDERE

  • Dal concorso all’abominio civile: l’individualismo cinico e il disfacimento delle colonne del Paese

La competizione, nel suo impianto teorico più nobile, rappresenta il motore ineludibile del progresso civile, il meccanismo deputato a elevare il merito e a infondere rigore e credibilità nelle istituzioni. Essa incarna la promessa di una giustizia distributiva basata sul talento e sull’impegno profuso. Ma quando le dinamiche di questa gara vengono inquinate o distorte da presupposti strutturalmente fallaci, il suo esito si ribalta in una gazzarra che nega la sua stessa ragion d’essere.

Si ha la netta sensazione che l’onestà si sia fatta zavorra per il meritevole. L’integrità, puro impedimento. E quel percorso, tessuto di paziente sacrificio e di passaggi conquistati con rigore, non costituisce più un requisito, bensì un’aggravante ingenuità.

Non è una crisi formativa contingente quella che osserviamo, quanto piuttosto la normalizzazione di un assioma perverso. Il successo, ormai, non è primariamente retaggio della preparazione o dell’etica, ma diviene tributo alla capacità di navigare e adattarsi, con prontezza, tra le anfrattuosità di un apparato in piena agonia.

Due episodi recenti (l’epilogo dei concorsi PNRR3 per l’insegnamento e gli sbarramenti d’accesso alla facoltà di Medicina) travalicano il mero “errore di percorso” e rappresentano indizi palesi di una profonda deriva sociale.

Viviamo un’epoca in cui l’etica del bene comune è stata subornata da una distorta “ragion di Stato” a breve termine, tutta protesa al tornaconto individuale. Quando l’onestà intellettuale viene percepita come una vulnerabilità, la società ha ineluttabilmente smarrito il suo fondamento epistemologico, il quale dovrebbe incardinarsi sulla fiducia nella verità oggettiva e nella giustizia quale propulsore di sviluppo.

Questo smarrimento non è solo un difetto morale, ma la negazione di una necessità razionale. È il disconoscimento di quell’ordine logico che Baruch Spinoza, nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata, elevava a unica via per la libertà e la conoscenza vera, fondata sulla comprensione lucida delle cause e non sull’emozione cieca o sul calcolo egoistico.

Il processo, invece, non si limita a un errore di selezione ma, nel suo assetto, potrebbe plasmare, nel medio e nel lungo periodo, un nuovo archetipo di uomo di successo, forgiato sulla scaltrezza.

Palese è il nesso inscindibile tra potere e sapere analizzato da Michel Foucault. L’autorità non si limita a reprimere, ma è essa stessa produttiva, definendo cosa costituisca la “verità” e la “competenza” accettabile per l’accesso.

Il sistema, operando tale selezione, legittima di fatto l’opportunismo come nuovo status professionale, ridefinendo ex lege i criteri di valore.

L’astuzia, di per sé non viziosa in quanto utile strumento per decifrare la complessità, diviene qui inaccettabile perché innalzata a principio fondante. In tal modo, essa genera un individualismo esacerbato, che annienta la trasparenza e l’equa ripartizione, corrompendo la struttura etica imprescindibile per la sopravvivenza del consorzio civile

Socrate già ammoniva: “Quando la giustizia è corrotta, la cosa peggiore è che diventi la regola.”

  • La scuola al bivio tra ineffabilità della selezione e ragioni di bilancio

Il concorso PNRR3 si è concluso lasciando in eredità una scia di amarezza. Le fasi preselettive hanno rivelato un apparato non solo disorganizzato, ma strutturalmente iniquo.

All’evidente disparità istituzionale (testimoniata da prove con difficoltà disomogenee e commissioni palesemente disallineate) si è aggiunta l’apoteosi del nozionismo. Anziché discernere la competenza didattica effettiva (la capacità di relazione, la gestione del consesso, la trasmissione della passione e l’arte di agire con discernimento), il test ha gravitato su un sapere ultra specifico e sovente sterile. Un labirinto burocratico di quesiti ambigui che ha premiato la memoria spicciola a scapito dell’intelligenza pedagogica. È la vittoria della doxa (l’opinione effimera, la nozione inerte) sulla phronesis (la saggezza pratica). Laddove una probatio istituzionale premia la sterile accumulazione a detrimento della capacità di essere guida ed esempio, si consuma un’alienazione (anche marxianamente intesa) dalla funzione sociale stessa.

Non posso non avvertire, per deformazione professionale, il richiamo all’imperativo categorico kantiano. Questo meccanismo ignora il concetto di morale universale, che dovrebbe informare ogni azione, preferendo agire in base a un calcolo egoistico e strumentale, piuttosto che secondo una massima che si vorrebbe erigere a legge universale (quale, ad esempio, l’integrità).

Non bastasse questa impostazione già controversa, le denunce sull’uso di ausili tecnologici vietati hanno ulteriormente offuscato il procedimento. Coloro (non tutti, per fortuna) che hanno onorato il precetto della probità si sono visti preclusa la strada da chi (si spera pochi) ha optato per la maliziosa scorciatoia.

In questo contesto, forse, Blaise Pascal avrebbe commentato che “Non è la forza, ma l’opinione, che governa gli uomini.” L’opinione, in questo caso, di coloro che reputano non solo lecito, ma persino necessario, agire con sagacia e destrezza.

Nel frattempo, il Ministero può sbandierare di aver pacificato la coscienza con l’Europa, eludendo sanzioni sulla stabilizzazione dei precari (a fronte della procedura d’infrazione UE per l’eccessivo ricorso ai contratti a termine). Ma la patologia strutturale perdura. L’esercito dei 250.000 precari non viene sanato poiché il loro status (un docente su quattro è precario) concede un enorme risparmio (stipendi estivi non corrisposti e scatti di anzianità non contemplati, per esemplificare).

In ultima analisi, è lampante, il risparmio sull’istruzione si traduce in un risparmio sul futuro.

  • La sanità a rischio. La penuria di salvatori e l’abbondanza di esteti

Il disfacimento, purtroppo, non si arresta all’istruzione. L’eco delle polemiche sui test d’ingresso per la facoltà di Medicina rivela un idem sentire strutturale. Ragazzi che hanno studiato alacremente si vedono superare dai soliti opportunisti (le foto dei test sui social sono solo alcuni ineludibili indizi di irregolarità). La conseguenza è drammatica: stiamo parlando dei futuri professionisti ai quali sarà demandata la cura delle nostre vite.

Il paradosso si fa agghiacciante nell’analisi delle priorità sanitarie, che vi descrivo brevemente di seguito.

La penuria funzionale che nei pronto soccorso italiani registra un deficit di almeno 3.500 medici, equivalente al 38% del fabbisogno complessivo. L’emergenza si sorregge su soluzioni precarie (come i costosi “gettonisti”) e turni scoperti. Le dichiarazioni, a tal proposito, del parlamentare Crisanti (che cito esclusivamente in quanto le più recenti in ordine di tempo, e non certo per questioni partitiche) sono esaustive: ““Non è che noi abbiamo pochi medici. Noi non abbiamo radiologi, non abbiamo anestesisti, non abbiamo medici di medicina d’urgenza e non abbiamo patologi, e perché? Perché non li paghiamo. È da vent’anni che gli stipendi dei medici sono fermi.”

E mentre i professionisti essenziali scarseggiano, il settore che alimenta l’egocentrismo narcisistico prospera. L’Italia è tra i Paesi leader globali per interventi di chirurgia e medicina estetica, con un incremento complessivo delle procedure che ha toccato il 40% negli ultimi anni. Ed è un settore che non soffre certo l’indigenza economica.

La società, pertanto, non investe sulla sostanza (la salute pubblica e l’emergenza), ma sull’illusione e la parvenza (l’estetica individuale). È il trionfo della fenomenologia del superfluo. In questa prospettiva, la drammaticità non risiede nella mera arbitrarietà della scelta professionale (ognuno è liberissimo di scegliere la specializzazione che desidera), ma nella palese e incontrovertibile mancanza di un principio distributivo equo e, ancor più grave, nell’accettazione della frode, elementi che vìolano i princìpi cardine della giustizia collettiva.

Se l’accesso ai ruoli vitali è distorto, la società non può operare sotto il “velo d’ignoranza” congetturato da John Rawls. Qui, l’ingiustizia è trasparente eppure tacitamente accettata.

  • I piloni portanti in dissoluzione

La degenerazione delle priorità non è un fenomeno circoscritto, ma l’espressione di un male sistemico che sta erodendo le fondamenta dello Stato civile.

Il terzo, ineludibile pilastro è la sicurezza, ovvero l’insieme delle Forze dell’Ordine che, per il loro delicatissimo compito di garanzia e tutela, non possono (o dovrebbero) contemplare la mediocrità. La loro selezione, oggi più che mai, non può limitarsi alla mera verifica nozionistica (tralasciando i proverbiali canali preferenziali che non pochi hanno denunciato), ma dovrebbe porre in primissimo piano la condizione psico-attitudinale e lo spessore morale del candidato.

Questi tre settori (Istruzione, Sanità e Sicurezza) costituiscono il triangolo vitale che non può essere demandato all’interesse privato. Necessitano di un consolidamento che restituisca al cittadino un senso di certezza, serietà e imparzialità istituzionale, garantito in modo omogeneo in ogni porzione del Paese. Devono tornare a essere l’espressione tangibilmente sana di una cittadinanza che tutela e assicura.

La stessa premura etica, del resto, si estende a ogni altro settore strategico, dalle abilità cruciali per lo sviluppo delle infrastrutture e dell’ingegneria (dove l’errore ha un costo che eccede la mera economia), fino alla rigorosa imparzialità richiesta nei concorsi per la magistratura. A tal riguardo, per esempio, la proposta di separazione delle carriere, benché licenziata dal Senato, rischia di ridursi a una misura sterile, senza reali e fattive migliorie sociali, meramente ordinamentale che, partendo da un’investitura di una percentuale esigua di magistrati, che non impatta in alcun modo sulle condizioni dei processi o sull’effettivo disagio del cittadino, rischia invece di essere un veicolo di un’ulteriore strumentalizzazione e canalizzazione dell’autonomia dei poteri. L’obiettivo di rafforzare la giustizia nel suo impatto comunitario resta così un vago abbaglio

L’urgenza si estende, infine, al vitale settore della ricerca nel quale la competenza non è solo un requisito, ma la condizione stessa per la conoscenza progressiva e la competitività del Paese. Delegare questo settore all’imperizia (con la continua e reiterata diminuzione dei fondi da investire, e le dinamiche clientelari e nepotistiche che alcuni atenei riportano) significa non solo abdicare al futuro, ma perpetuare una narrazione provinciale che ignora l’imperativo etico della scoperta, fondamentale per il progresso di ogni civiltà.

Il discorso sulla farsa delle competenze si applica, in definitiva, a chiunque si arroghi una posizione che incide direttamente sul bene collettivo.

  • L’individualismo patologico è forse il vero malessere del Paese

I concorsi mal gestiti e la prassi dei brogli sono l’espressione più evidente di una patologia più profonda, è la normalizzazione del solipsismo cinico.

In una società in cui le strutture pubbliche sfumano, l’unico imperativo sembra essere “salvaguarda te stesso ad ogni costo”. La morale viene ribaltata nel momento in cui risulta più fruttuoso essere arrampicatori privi di scrupoli piuttosto che cittadini altruisti e preparati.

Stiamo edificando la nostra comunità su un piedistallo di cristallo: splendente all’apparenza (la meritocrazia sbandierata), ma composto in realtà da sotterfugi, predilizioni e discriminazioni.

Questo individualismo patologico non è una forma di libertà, ma una condanna. Chi si riflette nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau, non può che richiamare alla mente il suo monito: “la società, invece di perfezionare l’uomo, lo corrompe.” Il nostro (intendo questo attuale) contratto sociale è degenerato in un patto per la convenienza individuale, non per la volontà generale.

È il trionfo, ma volgarizzato, della “volontà di potenza” nietzschiana, nella sua declinazione più triviale. L’affermazione del proprio tornaconto attraverso l’annientamento delle regole comuni è divenuto il percorso “ideale” (probabilmente, ma paradossalmente, anche in senso platonico). Ne consegue un contratto pubblico tacito e infido, in cui ognuno si sente in diritto-dovere di frodare, per non soccombere. Il risultato non è una società di individui liberi, ma un’aggregazione di solitudini egoistiche in cerca di effimere conferme.

La condizione finale attuale è quella della “nausea” di Sartre o dell’“assurdo” di Camus. L’individuo si confronta con un mondo privo di senso etico, dove l’unica via per l’affermazione sembra passare necessariamente dall’azione cinica e auto-centrata.

Come sentenziava l’esistenzialista parigino: “L’uomo è condannato ad essere libero; condannato perché non si è creato da sé, ed è tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.”

Ma la libertà, aggiungiamo noi, si adempie anche nel non accettare passivamente ciò che è percepito come ineluttabile.

È doveroso operare una precisazione fondamentale. Questa serrata critica alla decadenza sociale non è in alcun modo un’accusa indiscriminata verso tutti coloro che, superando sbarramenti complessi, hanno dimostrato il proprio valore. Il merito, dove autentico, va riconosciuto e difeso. Il nostro bersaglio non è il singolo, bensì il sistema che, con cinismo strutturale e atavica inettitudine, ha fatto della scorciatoia, del favoritismo e del risparmio una tendenza pluridecennale standardizzata.

Questo declino infelice non è più un inconveniente trascurabile. Le conseguenze di accettare l’impreparazione e l’opportunismo come criteri di accesso alla gestione della res publica si stanno già compiendo nella vita quotidiana di ogni cittadino.

Il medico inadeguato, l’insegnante demotivato, il funzionario negligente, non sono ruoli astratti o maschere pirandelliane, ma sono coloro che detengono le chiavi della nostra salute, dell’educazione dei nostri figli e dell’efficienza amministrativa. Nessuno, in definitiva, può ritenersi esente da questa erosione. La qualità della sanità, l’efficacia dell’istruzione e la rettitudine della pubblica amministrazione sono i veri capisaldi di una nazione che vuole continuare a identificarsi come civile. Accettare che vengano gestiti da quanti si arrogano un potere su presupposti estranei al merito e alla preparazione effettiva è un atto di resa collettiva.

La battaglia contingente per i concorsi o i test truccati è molto più ampia di quanto sembri. Rientra nei tentativi, per quanto fiochi e chimerici, di una lotta per la salvezza etica di una patria che sta perdendo i pilastri della civiltà nel suo senso più compiuto.

È, a questo punto, indifferibile e soprattutto umanamente ineluttabile ricondurre il valore dell’integrità e della pertinenza reale al centro del dibattito, prima che la viscerale bramosia di pochi diventi l’unico requisito per l’accesso alla gestione dell’interesse di tutti.

L’alternativa è il collasso, etico prima che strutturale, quell’inevitabile svelamento, a danno di tutti, del “velo di Maya” che oggi chiamiamo competenza, e che lascia l’individuo, inerme e solo, a misurarsi con la cieca “volontà” di un sistema ormai refrattario alla ragione.